Scritto da Claudio Zani:
Così titolava un lungo articolo di Claudio Cerasa su “il Foglio.it”, dopo le dimissioni da ad di Apple da parte di Steve Jobs. Non sono un fruitore della Mela di Cupertino. I prodotti Apple mi lasciano indifferente, come tutte le mode. Ma Steve Jobs è un genio, un uomo che sicuramente ha cambiato qualcosa in modo permanemte. Ha avuto anche la forza di dare le dimissioni all’apice di grandi successi.
Ho deciso di riproporvelo integralmente, iniziando dalla fine, da quelle parole che vorrei aver saputo trovare tante volte per salutare i miei allievi alla fine di un corso, perchè esprime emozioni che ho vissuto, essendo passato attraverso l’arco della malattia che anche Jobs ha vissuto.
“Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose – tutte le aspettative di eternità, tutto l’orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire – semplicemente svaniscono di fronte all’idea della morte, lasciando solo quello che c’è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore. Essendoci passato attraverso posso parlarvi adesso con un po’ più di cognizione di causa di quando la morte era per me solo un concetto astratto e dirvi: Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E anche che la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la Morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della Vita. E’ l’agente di cambiamento della Vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo. Adesso il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via. Mi dispiace essere così drammatico ma è la pura verità. Il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non fatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare. E tutto il resto, ragazzi, tutto il resto è semplicemente secondario.”
Ecco il resto dell’articolo, il più completo che avrei potuto proporvi sull’argomento:
“La musica e le immagini, il cinema e i giornali, la mela e i santuari, il capellone e lo spinello, l’addio e la resurrezione, il nemico e la rivoluzione, la controcultura e l’evangelizzazione, e poi il sogno, lo spot, la politica e naturalmente la malattia. Steve Jobs decise di parlarne per la prima volta undici mesi dopo quella lunga mattinata trascorsa con la moglie Laurene al primo piano del reparto oncologico della Stanford University, al numero 875 di Blake Wilbur Drive, nel cuore della contea californiana di Santa Clara: undici mesi dopo quella mattinata in cui il capo della Apple si ritrovò tra le mani di un famoso chirurgo della Stanford Cancer University che nel giro di tre ore riuscì a rimuovergli quel tumore maligno che gli era stato diagnosticato tre settimane prima in uno studio medico di Palo Alto, e che in appena un mese e mezzo gli aveva rosicchiato prima il pancreas, poi la cistifellea, quindi lo stomaco e infine una buona parte dell’intestino tenue. E proprio undici mesi dopo quell’intervento che gli avrebbe salvato la vita, Steve si fece coraggio, raccolse le forze, rispose con un “sì” all’e-mail del suo amico preside della Stanford e alla fine decise di raccontare proprio nella sua vecchia università californiana tutto quello che non aveva ancora avuto il coraggio di raccontare a nessun altro. Era il 25 giugno del 2005 e quel giorno, Steve, era anche di ottimo umore.
“Più o meno un anno fa – disse il capo della Apple di fronte ai centocinquantadue neolaureati della Stanford University – mi è stato diagnosticato un cancro: ho fatto la scansione alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Figuratevi, non sapevo neanche che cosa fosse, un pancreas! I dottori, allora, mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, e che sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari – che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire. Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli, in pochi mesi, tutto quello che pensavi avresti avuto ancora dieci anni di tempo per dirglielo; questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile; questo, in altre parole, significa prepararsi a dire i tuoi ‘addio’. Vedete, ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno e la sera tardi, poi, è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell’analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie, che era là, mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare forte, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro, curabile con un intervento chirurgico. Così ho fatto l’intervento chirurgico e adesso sto bene. Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte, e spero, sinceramente, che sia anche la più vicina, almeno per qualche decennio”.
Sono passati quasi sei anni da quello che è diventato uno degli speech più famosi della storia di Steve Jobs ma sei anni dopo quella magnifica mattinata alla Stanford University – con gli studenti incantanti, i professori rapiti, i giornalisti stregati e gli occhi di Jobs lucidi per l’emozione – le notizie sulla salute di Steve non hanno smesso di preoccupare i devoti della Mela. E tutte quelle foto con la faccia visibilmente scavata che di tanto in tanto compaiono qua e là sui giornali americani e tutti quei maglioncini neri a collo alto in cui Jobs sembra scomparire niente affatto metaforicamente hanno avuto l’inevitabile effetto di stimolare in questi mesi un’infinità di ragionamenti legati a uno scenario che fino a qualche tempo fa sembrava quasi inimmaginabile: un mondo senza Steve Jobs. Uno scenario dietro cui si nascondono però non soltanto una serie di interrogativi relativi al futuro di una delle aziende più amate del pianeta, ovvio, ma anche un mare di questioni che è difficile non porsi ragionando sulla figura del capo della Apple, la sua storia, la sua filosofia, il significato della sua biografia e quella genuina venerazione che si respira ogni volta che nell’aria si sente sussurrare il nome di “Jobs”.
Si dice che è sempre nei momenti in cui si percepisce la possibile assenza di una figura cara che si riesce a comprendere fino in fondo l’importanza di quella persona, il senso della sua presenza e in un certo modo il significato più profondo della sua stessa esistenza. E in effetti, in questi giorni, nei confronti di Jobs, gli amanti della Apple, e non solo loro a dire la verità, stanno vivendo esattamente la stessa strana sensazione vissuta da chiunque si ritrovi all’improvviso a dover fare i conti con la possibile scomparsa di una persona importante, e l’idea che la persona che potrebbe scomparire da un momento all’altro sia una di quelle che negli ultimi anni ha forse più cambiato la nostra vita, e in parte la nostra cultura, non può che farci interrogare sulle ragioni che hanno permesso a quello che fino a poco tempo fa era soltanto l’inventore di un computer molto cool, molto trendy e molto fighetto, di diventare il vero volto simbolo del Ventunesimo secolo: la vera icona del nostro millennio.
La presentazione dell'iPad
E così, partiti da questa premessa, ci siamo dati un po’ da fare: abbiamo spulciato in mezzo a tutta la vasta bibliografia esistente in Italia sull’inventore della Mela, abbiamo letto tutto quello che c’era da leggere sul mondo della Apple, abbiamo rincorso per settimane una serie di persone che quel mondo lo conoscono assai bene e dopo aver coinvolto nella nostra indagine giornalisti, politici, antropologi, sociologi, economisti e grandi esperti del settore abbiamo pensato di buttare giù questa inchiesta per provare a spiegare, molto semplicemente, come diavolo abbia fatto Jobs a trasformare la sua azienda nella nuova religione del millennio: una religione in cui i prodotti naturalmente diventano “oggetti di culto”, in cui i negozi diventano “cattedrali del consumo”, in cui le battaglie commerciali diventano pacifiche “guerre sante”, in cui la clientela diventa una “comunità di fedeli” e in cui lo stesso capo azienda si ritrova a essere paragonato ora a “un messia”, ora a “un profeta”, ora a “un salvatore”, ora a un “redentore”. “La gente – come ha ammesso il giornalista americano Sherry Turkle in una famosa cover story del Time nel 1998 intitolata Jesus Online – si è ormai abituata a utilizzare un gran numero di simboli sacri per relazionarsi con gli strumenti delle nuove tecnologie ed è ormai evidente che in questo mondo saranno destinate ad avere successo solo quelle realtà che sapranno sfruttare con intelligenza e furbizia, e soprattutto senza fare una figura ridicola, l’universo semiotico delle metafore divine”.
La metafora del rapporto tra mondo religioso e mondo della Apple è stata perfettamente sintetizzata con la famosissima copertina scelta tre anni fa dall’Economist per celebrare l’arrivo sul mercato di uno dei prodotti che hanno certamente fatto la storia recente della Apple, l’iPad. In quell’occasione, il settimanale inglese scelse di rappresentare il senso dell’ultima rivoluzione della Mela pubblicando nella sua cover una storica immagine in cui Steve veniva raffigurato con un’angelica aureola attorno al capo spelacchiato, una lunga tunica di seta blu poggiata sulla solita e anonima magliettina nera e due scintillanti tavolette della legge, a forma di iPad, delicatamente poggiate sui palmi aperti delle mani di Steve-Mosè-Jobs. E il titolo di quella copertina diceva già molto sulla rappresentazione più o meno divina dell’inventore della Mela: “Ecco a voi le nuove tavole della legge”. Certo, è evidente: si potrebbe anche pensare che la fissa per la metaforica rappresentazione del mondo della Apple in qualcosa di assai simile a una sorta di nuova religione sia soltanto una bizzarra materia da strampalate copertine di giornali o da grandi paginone di piccoli giornali d’opinione. Ma i segnali che testimoniano la progressiva e scientifica trasformazione del marchio Apple in un simbolo trasparente di una nuova, irresistibile e trascinante fede planetaria si trovano in realtà sparpagliati un po’ ovunque nella grande rete della Apple: ed è davvero difficile trovare oggi un terreno migliore di questo per spiegare che cosa si nasconde davvero dietro lo straordinario culto creatosi attorno al messia.
Appena due anni dopo quella storica copertina, due famosi professori americani della Texas A&M University (la settima università degli Stati Uniti), nel marzo del 2010, pubblicarono un lungo e documentato paper per dimostrare come la storia della Apple “contenesse realmente un gran numero di tratti che riflettono alcuni elementi basici delle religioni tradizionali”. “E’ innegabile – ha detto la professoressa Heidi Campbell, uno dei due autori dello studio, intervistato nell’ottobre 2010 su Fox News – che il linguaggio che contraddistingue il così detto culto della Apple indichi la presenza all’interno di quel mondo di una sorta di ‘implicit religion’, di una religione implicita, e se ci si pensa bene vi sono almeno tre fattori che permettono di comprendere perché l’universo della Mela morsicchiata sia oggi percepito come una nuova forma di culto condiviso: vi è il luogo umile in cui sono stati dati i natali alla creatura Apple (il garage di una casa di Cupertino, che sta alla Apple come la mangiatoia di Betlemme sta alla chiesa cattolica); vi è l’idea che alla guida di una comunità di fedeli vi sia un leader che prima di essere stato riconosciuto come una vera figura messianica è stato costretto ad attraversare vari passaggi difficili della sua vita (e in questo senso il miracoloso ritorno a Cupertino di Jobs, dopo il licenziamento dalla Apple, è paragonabile simbolicamente alla resurrezione del Salvatore); e infine nelle varie fasi della vita della Apple c’è sempre la figura di un acerrimo, spietato e indiavolato nemico (ora l’Ibm, ora la Microsoft, ora Google) che viene di volta in volta presentato come fosse davvero quel simbolo delle forze del Demonio contro cui combattono coraggiosamente gli angioletti della Apple”.
Naturalmente, a quel vecchio furbacchione di Jobs l’idea di essere percepito come “il Gesù Cristo della Modernità” non è mai dispiaciuta, e in fondo è praticamente dalla fondazione della Apple che il vecchio Steve si diverte a mescolare la narrazione della propria storia con quella del Cristo Redentore. E se l’episodio più curioso che viene spesso raccontato dai più anziani dipendenti della Apple è quello relativo al famoso Natale del 1977, quando Jobs si presentò alla festa organizzata dalla Apple travestito proprio da Gesù Cristo, la storia forse più significativa sulla rappresentazione religiosa del mondo della Mela è la scelta fatta da Jobs all’inizio del 2003 per presentare quel graziosissimo oggetto rettangolare di nome iPhone. Un oggetto che, come disse in quell’anno Jobs con tono eccitato nel corso di uno dei Keynote speech più famosi della storia della Apple, “sono certo che farà il miracolo di cambiare il mondo”.
“Nella storia dell’iPhone – come ci racconta un vecchio dipendente della Apple – vi sono davvero tutti gli ingredienti che hanno permesso a Steve di presentarsi negli anni come fosse una sorta di grande messia contemporaneo. E se ci si pensa bene, nell’universo culturale legato all’iPhone vi è proprio tutto il mondo divino di Jobs: c’è la celebrazione di un evento miracoloso, c’è il rapporto tra la fede e la creazione, c’è la consacrazione di un messia e c’è infine la devozione di un’intera comunità per un oggetto piuttosto particolare che non a caso, proprio nei giorni in cui fu presentato, qualcuno ribattezzò subito con un soprannome, come dire, piuttosto forte: Jesus Phone, nientemeno che il telefonino di Gesù Cristo…”.
Nei mesi in cui l’iPhone venne presentato al mondo da Jobs, cominciarono a girare alcune immagini simbolicamente molto significative: giornali brasiliani pubblicarono fotomontaggi raffiguranti una Maria pronta ad accudire nella mangiatoia un iPhone al posto di Gesù, una famosa comunità di blogger asiatici ritoccò la famosa immagine del sacro cuore di Gesù inserendo nella mano sinistra di Cristo non più un cuore pulsante ma un telefono della Apple e alla fine, senza farsi niente affatto intimorire dal temerario accostamento tra la storia di Steve e quella di Gesù, la Apple decise di farsi interprete del clima mistico creatosi attorno al mondo dell’iPhone per lanciare una campagna pubblicitaria dallo slogan “touching is believing”, “toccare per credere”.
Campagna il cui soggetto, e forse qualcuno se lo ricorderà, era un iPhone sospeso nell’aria che veniva sfiorato dall’indice di una misteriosa mano fluttuante ispirata al dettaglio più famoso della “Creazione di Adamo” di Michelangelo: quell’istante cioè in cui l’indice della mano destra di Adamo sfiora l’indice della mano sinistra di Dio ricevendone la linfa vitale. Inutile dire che nella famosa pubblicità della Apple la mano che sfiora l’iPhone, che altro non è naturalmente che la mano di Jobs, si trova proprio dalla parte giusta: ovviamente, e ci mancherebbe, dalla parte del Creatore.
“La trasformazione del telefono della Apple in una sorta di telefono di Cristo – ci racconta Alberto Marinelli, docente di Nuove tecnologie all’Università la Sapienza di Roma – è stato uno dei momenti più importanti della storia dell’azienda di Jobs: è stato quello in cui per la prima volta la Mela morsicchiata ha offerto alla sua comunità un collegamento diretto tra la biografia di Steve e quella del Creatore ed è stato anche il momento in cui, forse in modo definitivo, si è completato il lungo processo di rappresentazione divina dell’inventore della Apple. Un processo che è diventato evidente con l’arrivo dell’iPhone ma che trae le sue origini a quando la Apple decise di legare l’universo simbolico dell’azienda con quello della mela. E non credo sia affatto un errore dire che l’assimilazione dell’iconografia religiosa all’interno della cultura consumistica americana nasca proprio quando Jobs decise di far discendere la sua creatura dal frutto proibito del primo libro della Genesi”.
Una delle ragioni che meglio delle altre spiega l’affermazione di quell’innegabile senso di sacralità legato all’universo della Apple, e la progressiva “miracolosa” identificazione tra il corpo di Steve e il logo della sua azienda, va ricercata proprio in quella ancora oggi misteriosa scelta fatta da Jobs di utilizzare la silhouette di una mela per sintetizzare in modo unico l’identità più profonda della sua società. Jobs, che non ha mai offerto una risposta precisa alla domanda “ehi, ma perché mai proprio una mela?”, si è sempre rifiutato di smentire le centinaia di leggende metropolitane maturate intorno alla decisione di rappresentare la sua creatura con l’immagine del frutto del peccato, e non ha mai fatto nulla per arginare il gran numero di interpretazioni, anche stravaganti, nate negli anni attorno all’origine del simbolo della Apple. E così non può certo stupire se da decenni ormai i fanatici della materia si chiedano con insistenza se quella mela sia un tributo più alla cultura pitagorica o più alle odissee di Biancaneve; se quella mela sia un omaggio più alla storia dei Beatles o alle avventure di Guglielmo Tell; se quella mela sia legata più alla Big Apple newyorchese o alla mitica mela d’oro offerta da Zeus alla dea Hera; o se invece, in qualche modo, quella mela c’entri più con il primo libro della Genesi o con la genialità di Isaac Newton. A dire il vero, l’unico frammento di verità su questa storia l’ha offerto vent’anni fa l’allora membro dell’esecutivo della Apple Jean-Louis Gassée, che in una intervista al Monde rivelò per la prima volta una mezza versione ufficiale del significato della Mela. “Credo – disse Gassée – che sia indiscutibile che quella mela abbia contribuito al processo di divinizzazione del nostro amato Steve e credo sia altrettanto indiscutibile che quel simbolo misterioso abbia contribuito a rendere sacra la nostra azienda. Ma se dovessi davvero dire quali sono per noi i principali riferimenti simbolici legati al simbolo della mela, ecco, non avrei difficoltà ad ammettere che la nostra mela ha senz’altro la capacità di rappresentare insieme, e con un unico tratto, la sfera semantica del peccato, della conoscenza, della speranza, della creatività, della trasgressione e ovviamente dell’anarchia. Ed è per questo che sono convinto che chiunque sia alla ricerca dei segreti della nostra società, e in qualche modo anche dei segreti di Steve, non possa che partire dalla storia, dallo studio e dall’interpretazione del nostro simbolo”.
Il primo schizzo di mela disegnato per la Apple venne offerto a Steve Jobs a pochi mesi dalla nascita della sua società, nell’agosto del 1976, quando il mitico Ron Wayne, il creativo dell’azienda di Cupertino, consegnò all’allora capellone Jobs un piccolo banner di stoffa gialla su cui scelse di riprodurre, accanto all’immagine stilizzata di un giovane Isaac Newton coricato sotto un grazioso albero stracarico di mele, uno slogan di undici parole che nell’idea di Wayne avrebbe dovuto riassumere in modo definitivo il senso della mission della Apple: “Newton… A Mind Forever Voyaging Through Strange Seas of Thought… Alone” (Ovvero: “Newton… Una mente in continuo viaggio attraverso gli strani mari del pensiero… Da solo”). Come è facile immaginare, già all’epoca la scelta di affidare il destino di una grande azienda a una piccola mela aprì un vivacissimo dibattito all’interno della frizzante comunità degli smanettoni tecnologici, e oltre al chiaro riferimento alla mela che illuminò Newton sulla legge di gravitazione universale c’era chi sosteneva che la scelta della mela fosse stata influenzata, in realtà, anche da una miriade di altri elementi: qualcuno era convinto che Jobs si fosse voluto ispirare all’immagine della storica etichetta discografica dei Beatles “Apple Records” (prodotta, in effetti, nel 1976); qualcun altro credeva che fosse invece rimasto attratto dalla forma della mela dopo un lungo periodo trascorso nel 1975 all’interno di una grande fattoria dell’Oregon piena di alberi di mele; qualcun altro era convinto che l’idea della mela fosse maturata durante un lungo viaggio fatto in India in cui Steve, oltre che diventare buddista, scelse di adottare una rigidissima dieta vegetariana a base di mele; e qualcun altro ancora sosteneva invece che la parola “Apple” fosse stata scelta solo per far risultare la Apple in cima alle liste delle aziende presenti nell’elenco telefonico. Ma il numero di interpretazioni più o meno originali legate al significato simbolico dell’uso della mela iniziò a farsi davvero sostanzioso in seguito a una piccola rivoluzione che Jobs decise di realizzare tre mesi prima del lancio del più famoso computer della storia: l’Apple II. Era il 1977, Jobs si convinse che quello schizzetto troppo intellettualoide offertogli dall’amico Wayne fosse una delle cause determinanti del grande flop registrato dal primo computer della Apple, e nel gennaio di quell’anno decise di contattare l’art director di una delle agenzie pubblicitarie più famose del mondo (Rob Janoff della Regis McKenna) per provare a dare un sostanzioso tocco di originalità alla sua azienda. E Steve chiese di farlo anche con una certa fretta: l’Apple II doveva essere lanciato il 17 aprile 1977, le linee di credito che erano state garantite a Jobs cominciavano a non essere più sufficienti, i soldi che Steve era riuscito a raccogliere personalmente (vendendo tutto ciò che di prezioso aveva nella sua abitazione, compreso lo splendido furgoncino verde della Volkswagen modello Bill che Steve diede via per poche migliaia di dollari) iniziavano a scarseggiare e per questo, dopo due mesi di inutili ricerche, Steve decise di partecipare direttamente al processo di reinvenzione del logo Apple. E fu proprio un pomeriggio del marzo del 1977 che Rob Janoff, di ritorno dalla solita passeggiata fatta ogni mattina al supermercato, dopo aver tirato fuori dal sacchetto della spesa il solito mezzo chilo di mele verdi, ebbe l’illuminazione, e giusto qualche minuto prima che Steve piombasse nel suo appartamento iniziò a disegnare sul suo quadernino a quadretti una piccola mela nera stilizzata. Come ammetterà anni dopo Rob, fu mentre disegnava quella mela che improvvisamente si ricordò del gioco di parole che la Apple aveva scelto di utilizzare per la pubblicità del suo primo computer (“Byte into an Apple”: dove il “byte”, ovvero il numero di bit utilizzati per codificare in un computer un singolo carattere di testo, veniva pronunciato come se fosse “bite”, pronuncia “bait”, che in inglese significa, per l’appunto, mordere) e che decise d’un tratto, così, di cancellare la prima bozza di mela per farne una praticamente uguale ma con una piccola differenza sostanziale: con un “bait”, un bel morso, sul lato destro del frutto.
“Steve – ricorderà anni dopo Janoff – la guardò con attenzione, fece su e giù con la testa e dopo aver consigliato di aggiungere qualche colore in più alla mela per differenziarsi dal rigido bianco e nero dei suoi rivali della Ibm finalmente disse di sì, all right men!”.
Come ci spiega oggi il professor Massimo Canevacci, storico docente di Antropologia culturale all’università la Sapienza di Roma, “quella mela evidentemente è un’entità molto più simile al frutto della conoscenza del primo libro della Genesi che a qualsiasi altra mela comparsa nella storia della mitologia occidentale, ma ciò che più sorprende del significato metaforico legato a quel frutto è il modo in cui l’inventore della Apple ha completamente capovolto il senso di quel simbolo: perché, con Jobs, la Mela, da frutto del peccato che ‘non devi mangiare poiché se tu ne mangerai di certo morrai’, è diventata il simbolo della conoscenza a cui è quasi doveroso non rinunciare, il simbolo di un nuovo, e rivoluzionario, ‘prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi’. E dunque, come è facile immaginare, non può certo sorprendere che da quel giorno in poi i discepoli della Apple siano stati sempre più incentivati a sgranocchiare quella mela, a fare proprio quello che non era più il frutto del peccato, a stabilire un rapporto quasi carnale con il loro profeta, a interiorizzare il simbolo della Apple, a sentirsi quasi parte del corpo di Jobs e a relazionarsi con il loro Steve proprio come se la loro guida fosse l’impersonificazione di una nuova grande Conoscenza. E in questo senso, la penetrazione niente affatto metaforica della mela di Jobs all’interno delle vite dei componenti della sua comunità ha avuto l’effetto inevitabile di rafforzare il legame tra il corpo del pastore e quello del suo gregge, accelerando così quel particolarissimo processo conosciuto come ‘interiorizzazione del marchio Apple’. Fenomeno che – conclude Canevacci – prese vita quando le così dette tecnologie di consumo, introdotte nelle nostre vite, generano negli utenti una sorta di ossessione feticistica che ci porta a credere che le nostre macchine siano fornite di poteri che vadano molto al di là dell’uso che potremmo farne: come se insomma fossero più che degli oggetti, o dei prodotti, quasi dei soggetti vivi: praticamente animati”.
Per chi vuole comprendere la natura del rapporto, appunto, quasi feticistico tra l’inventore della Apple e la comunità dei suoi seguaci, e per chi vuole comprendere le ragioni che hanno permesso a Steve Jobs di diventare davvero parte integrante delle nostre vite, è importante non sottovalutare il particolare processo di cui parla in queste righe il professor Canevacci. Un processo che, come vedremo, nella storia della Apple è stato volontariamente innescato da Jobs in un momento preciso della vita della Mela: quando Steve decise di sperimentare una particolarissima lettera che di lì a poco tempo sarebbe diventata uno dei nuovi simboli dell’Apple pensiero: la “i”; “i” come i-Pod, “i” come i-Phone, “i” come i-Pad (si dice “aipad”, per carità, non “ipad”) e “i”, soprattutto, come quel rivoluzionario i-Mac presentato, da Jobs, di fronte alla comunità della Apple il 7 maggio 1988. Quel Mac – che oltre a essere entrato nel Guinnes dei primati per il manuale d’istruzioni più corto del mondo (due minimali pagine di indicazioni con pochi minimali suggerimenti per far funzionare il Mac del tipo: connettere il computer alla rete elettrica e poi accendetelo tramite apposito tasto, punto) – è diventato famoso per essere stato il primo computer con cui la Mela ha cercato di stabilire un rapporto “friendly”, d’amicizia, tra la macchina e il suo interlocutore umano. E così, capitava che il Mac ti dava il benvenuto con un “Say Hello to Mac”; che ti guidava con un’interfaccia grafica che ti sorrideva al momento dell’accensione; che ti veniva venduto dentro una custodia che già all’epoca si chiamava “second skin”, seconda pelle; e che con quella “i” pronunciata “ai” come fosse un “Hi” (come un “hello” abbreviato, come insomma un “ciao amico mio sono un Mac”) stabiliva effettivamente un rapporto caldo, diretto e non spersonalizzato tra l’utente e il suo computer. Ebbene: tra gli amanti della Mela si dice che fu proprio quello il momento in cui per la prima volta gli oggetti dell’Apple cominciarono a essere costruiti, ideati e progettati come fossero non più delle “cose” ma come se in un certo senso fossero dei soggetti con una specifica identità, come se iniziassero, insomma, praticamente a prendere vita.
“Ma al di là dell’incredibile sfera simbolica maturata attorno all’universo della Apple – come sostiene l’ex vicepresidente di Apple Jay Elliot nel libro da poco uscito “Jobs l’uomo che ha inventato il futuro” – una delle ragioni che forse più delle altre ha permesso in questi anni al mago Steve di trasformarsi in una potenza simbolica inaudita è legata al modo in cui l’inventore della mela morsicchiata è riuscito a diventare l’ultimo vero portatore sano del vecchio spirito dell’american dream, di quella speranza di migliorare la propria vita, e di raggiungere in qualche modo la felicità superando gli ostacoli materializzatisi sul proprio cammino, attraverso la realizzazione e l’affermazione di un progetto, di un pensiero, di un’idea e appunto di un sogno. Perché la storia dell’affermazione della Apple è, in un certo senso, la storia dell’affermazione del capitalismo americano, è la storia esemplare di come ancora oggi sia possibile far risorgere delle aziende che più volte sono andate vicino alla morte ed è soprattutto la storia della ascesa di un piccolo gruppo di amici che con la forza delle idee ha imposto la sua visione del mondo nei mercati internazionali, e che come un vascello che riesce a trovare sempre le rotte giuste per resistere alle grandi tempeste sa che anche nei momenti di difficoltà è possibile trovare le strategie giuste per andare avanti.
Ma per capire bene il discorso di Elliot è forse sufficiente riportare alcuni risultati importanti registrati in questi anni dalla Apple: numeri che nel giro di quattordici anni, da quel maledetto 6 agosto 1997 in cui la casa di Cupertino segnò la perdita trimestrale più pesante della sua storia (530 milioni dollari), tra iPod, iPhone, iPad e naturalmente iTunes, le hanno permesso di raggiungere traguardi da urlo. Fino ad arrivare alle 14 e 30 del 27 maggio del 2010 a capitalizzare, per la prima volta nella sua storia, più dei grandi nemici della Microsoft (passando dai 7,63 miliardi di capitalizzazione del 2001 ai 244 miliardi del 2010, anno in cui Microsoft arrivò a quota 221,35), diventando nel gennaio del 2011 la seconda azienda più grande del mondo alle spalle del gigante petrolifero della Exxon e riuscendo infine a superare proprio la Exxon giusto pochi giorni fa, lo scorso dieci agosto, arrivando a capitalizzare 338 miliardi contro i 337,7 del colosso petrolifero: davvero niente male per un’azienda che dieci anni prima era assai vicina a un clamoroso fallimento.
“Il rapporto con la Microsoft – dice il professor Marinelli– e più in generale con tutti i rivali avuti nel tempo da Steve Jobs, dall’Ibm di ieri alla Google di oggi, è uno degli elementi chiave per comprendere il modo in cui si è andato a consolidare il culto della Mela. La Apple, si sa, è nata come una rivoluzionaria controcultura che cercava di affermare le sue ragioni contro il noioso strapotere dominante dei grandi colossi tecnologici americani, e se ci si pensa bene non c’è gesto, non c’è atto, non c’è momento della vita della Apple in cui i suoi capi non hanno cercato di far sedimentare nell’immaginario collettivo della propria comunità non solo la percezione universale della strafigaggine del proprio marchio ma anche l’idea che gli ‘appleist’, i devoti del verbo della Apple, fossero in fondo una sacrificata minoranza che doveva combattere ogni giorno per affermare i suoi principi contro i grandi monopolisti, contro i grandi tromboni complici del sistema dominante e contro, insomma, i conduttori unici delle coscienze tecnologiche. E non è certo un caso che l’essere riusciti a superare gli acerrimi nemici della Microsoft è stato percepito dalla comunità della Apple, e a dire il vero non soltanto da loro, come se fosse, più in generale, una formidabile allegoria della grande vittoria di una piccola e gagliarda minoranza contro le forze maligne del famoso sistema dominante”.
In effetti dietro la venerazione della figura di Jobs esiste una precisa base teorica che negli anni ha permesso all’azienda di Cupertino di imporsi non solo come una sorta di nuovo culto condiviso ma anche come una sintesi perfetta di una grande controcultura trasversale fatta di pensatori liberi, di spiriti indipendenti, di personalità creative e di consumatori appassionati decisi a costruire insieme una realtà che riesca a imporsi sul così detto “sistema dominante”. Con l’idea che l’unico modo di affrancarsi dallo status di minoranza oppressa, e l’unico modo di trovare la forza per reagire a una certa minacciosa e ingiusta egemonia culturale, sia quello di trasformare il computer, gli iPod, gli iPhone e persino gli iPad in grandi strumenti di liberazione sociale. In questo senso, il capolavoro compiuto da Jobs è stato insomma quello di far diventare, già alla fine degli anni Settanta, il mondo della Apple la cassa di risonanza delle sollecitazioni che arrivavano dall’universo della controcultura californiana, ed è forse proprio per questo che nel corso degli anni il capo della Apple si è impegnato in tutti i modi a mantenere quello standard di azienda “socialmente impegnata” schierando di volta in volta, metaforicamente, simbolicamente e soprattutto commercialmente, la sua Apple contro i grandi colossi del mercato americano. Uno schema, questo, che si trova anche alla base di una delle interpretazioni più fantasiose, e forse più affascinanti, che gira attorno alla complessa origine della simbologia del marchio della Apple – e che potrebbe aiutare a capire una volta per tutte che cosa cavolo c’entri la Mela di Jobs con la Grande Mela di New York. Escluso, ovviamente, che la Big Apple si chiami così in omaggio alla Apple di Jobs (si dice che negli anni Venti furono quei musicisti jazz che alla fine dei loro concerti ricevevano in dono una big apple a far nascere l’idea di dare alla città di New York il nome di una Grande Mela) non è invece da escludere affatto che dietro al morso della mela si nasconda quel conflitto di lungo corso che a partire dagli anni Settanta ha messo una contro l’altra la dottrina tecnologica californiana – quella caratterizzata dalle piccole aziende della Silicon Valley, sponda ovest degli Stati Uniti – con quella più legata alla sponda est dell’America, rappresentata dal leggendario Massachusetts Institute of Technology di Boston e in particolare da quei colossi americani magnificamente rappresentati a loro volta da quel gigante di nome Ibm: gigante che dall’inizio del secolo scorso ha la sua sede operativa nell’est degli Stati Uniti, nella zona di Armonk, New York, a trenta minuti di macchina esatti da Manhattan. E seguendo allora lo schema del buoni-cattivi, creativi contro tromboni, est contro ovest, Silicon Valley contro New York, frizzante minoranza contro establishment opprimente, beh, quale altro simbolo migliore al mondo può esistere per riassumere con un tratto di matita la sfida lanciata da Jobs al mondo della Big Apple se non quello di una magnifica Big Apple tutta morsicchiata?
Interpretazioni del simbolo della mela a parte, bisogna però riconoscere che è proprio nella ribelle controcultura californiana degli anni Settanta che va ricercata la formula che ha permesso a Jobs di dividere il mondo degli smanettoni tecnologici tra i fighetti buoni (quelli creativi, scravattati, geniali, imprevedibili, frizzanti della Apple) e quegli sfigati e cattivi (quelli seriosi, noiosi, prevedibili in doppiopetto, dell’Ibm, della Microsoft e in parte ora di Google) destinati a essere travolti da un incontenibile fiume di pura creatività.
“La rivoluzione del personal computer – secondo Leander Kahney, autore del “Culto del Mac” – ha avuto la sua codificazione genetica a metà degli anni 60. E mettendo insieme la protesta, la politica, la musica, la droga e il personal computer, è stato proprio in quel momento storico che la Apple è riuscita a diventare il simbolo di una realtà anti autoritaria, anti guerra, anti disciplina e più semplicemente anti potere. In quel periodo, poi, fu chiaro che una volta esaurita nella società la spinta di rinnovamento portata avanti dai movimenti politici quel compito sarebbe stato ereditato da chiunque fosse stato capace di coinvolgere le nuove comunità facendo propri i valori del cambiamento. E non può dunque stupire che alcuni tra i primi gruppi degli utenti Mac siano nati con motivazioni politiche (a Berkeley il primo negozio della Apple venne gestito da una comunità hippie); non può stupire che prima di fondare la Apple Jobs abbia vissuto per sei mesi in una comunità Hippie dell’Oregon (quella in cui avrebbe mangiato un sacco di mele); e non può nemmeno stupire che il primo grande negozio della Apple, fondato nel nord della California negli anni Ottanta non fosse propriamente un negozio ma, come a Berkeley, una comunità di libero amore di hippie del san Francisco Haight Ashbury District: formata da circa 30 membri della comunità hippy kerista. E lo stesso abbigliamento di Steve Jobs – jeans, sneakers e maglione a collo alto – è un preciso tratto distintivo che porta quasi meccanicamente l’interlocutore a credere che lui, Steve, sia diverso rispetto a tutti gli altri sfigati incravattati miseramente corrotti dal sistema dominante”.
La suddivisione dei due mondi disegnata dal messia di Cupertino fu per la prima volta esplicitata in mondovisione il 22 gennaio del 1984, quando la Apple, due giorni prima che fosse messa sul mercato l’ultima versione del Mac, decise di acquistare per 368 mila dollari uno degli spazi più costosi e più ambiti dell’intero mercato pubblicitario americano. Si trattava, come molti ricorderanno, del famosissimo intervallo della diciottesima edizione del Super Bowl americano, e in quei celebri novanta secondi di spot la Apple pubblicizzò la sua ultima diavoleria con un apocalittico spot di ottanta secondi girato da Ridley Scott (dove, anni dopo, si scoprì che tra gli umanoidi che combattevamo la polizia del pensiero vi era anche, nascosto tra le comparse, una bella donna atletica interpretata dallo stesso Jobs) che si concludeva con una frase storica: “Il 24 gennaio Apple lancerà il Macintosh. E capirete perchè il 1984 non sarà come 1984”. Sottotesto dello spot: “Se non volete più sentirvi complici di uno schifosissimo mondo malvagio che attraverso l’utilizzo dei personal computer sta schiavizzando la vostra esistenza trasformandovi in piccoli, brutti e insignificanti robot privi di personalità, se insomma non volete continuare a sentirvi come se foste i protagonisti del romanzo di Orwell, beh, sapete a chi, da ora in poi, dovete rivolgervi. A noi, naturalmente”.
Come se non bastasse, nel corso degli anni le strategie comunicative con cui Steve Jobs ha cercato di affermare l’idea che tutto ciò che è legato al mondo della Mela non possa che essere investito da un’irresistibile aura di armonica bellezza ha varcato i confini degli spot tradizionali e ha trovato un importante terreno fertile all’interno dell’universo del cinema americano. Che ci si creda o no, uno dei capolavori più recenti del capo della Apple è stato quello di sfruttare le sue buone entrature tra gli Studios di Los Angeles (Jobs, in fondo, è pur sempre membro del consiglio d’amministrazione della Disney!) per riuscire a posizionare i prodotti più cool della propria azienda all’interno delle scene chiave di alcune famose, e recentissime, storie hollywoodiane. E così, tra film e serie tv, è stato calcolato da un sito di maniaci della Mela che il numero di prodotti Apple comparsi sugli schermi dall’inizio degli anni Ottanta fino alla fine del 2007 si aggira attorno alle 1.500 unità. E da Beverly Hills 90210 a Melrose Place, da Dharma & Greg a X Files, da The Drew Carey show a Spin city, da Indipendence Day a Mission Impossible fino ai casi forse più clamorosi di Carrie Bradshaw in Sex And The City e di Jack Bauer nella serie “24” la costante è sempre la stessa: i buoni, i giusti e quelli più in gamba utilizzano il Macintosh; i cattivi utilizzano i programmi della Microsoft.
In Sex And The City, per dire, ricordiamo il caldo fascio di luce bianca a forma di mela proiettato dal computer utilizzato da Carrie per scrivere le sue column sulle pagine del New York Star, e allo stesso tempo ricordiamo come il fastidioso ticchettio prodotto dalla tastiera utilizzata dall’uomo che più volte ha spezzato il cuore della povera Carrie, mister Big, proveniva non certo da un Mac ma da un misero computer caricato con le manovelle della Windows. Per non parlare poi del caso di “24”, la geniale serie tv americana ideata da Joel Surnow e Robert Cochran in cui il protagonista Jack Bauer (agente dell’Unità anti terrorismo interpretato da Kiefer Sutherland) sceglie di salvare ogni giorno l’America utilizzando un Powerbook titanium della Apple e tenta di disinnescare le minacce terroristiche con una particolare squadra speciale formata da agenti che con i loro sottilissimi MacBook a schermo piatto cercano di sventare ogni giorno le malefatte ordite da un gruppo di spietati terroristi serbi, che si servono – neanche a dirlo – di rudimentali computer della Dell (e tra i cattivi solo una persona utilizza un computer della Apple: si chiama Jamey e alla fine della serie passerà naturalmente con i buoni).
Al di là però della meccanica con cui la Apple è riuscita a trasformarsi in un formidabile simbolo di esplosiva creatività, vi è anche un altro spunto di riflessione che può spiegare bene le ragioni che hanno permesso al mago Steve di affermarsi come uno dei veri miti del Ventunesimo secolo. Abbiamo già parlato del ruolo avuto da Jobs nell’andare a rappresentare una storia esemplare di sogno americano, abbiamo già parlato dell’importanza avuta dal capo della Apple a trasformarsi nella guida di una certa controcultura americana ma non abbiamo ancora parlato del modo in cui l’inventore della Mela è riuscito a diventare un modello universale di un nuovo genere di leadership carismatica. Un modello che nel corso del tempo ha evidentemente superato i confini delle dinamiche aziendali e che, se ci si riflette un attimo, ha avuto anche l’effetto di influenzare direttamente il mondo della politica non solo americana. E il fatto che Steve Jobs sia diventato un esempio a cui ispirarsi, un simbolo a cui affiancarsi e, nel senso più stretto del termine, una grande “icona” delle leadership di nuova generazione non può certo essere considerato un elemento secondario nel processo di beatificazione del messia di Cupertino.
“Per la politica – ci dice Matteo Renzi, che, oltre a essere sindaco di Firenze e oltre a essere, come da sua stessa ammissione, un Apple dipendente, è anche uno dei politici che in Italia ha ammesso con più franchezza di ispirarsi sinceramente all’esempio di leadership ideato dall’inventore della Mela – è un modello nel senso che poche persone come lui sono riuscite a produrre in modo così genuino quel tipo di sentimento di identificazione planetario con un singolo uomo di cui è stato protagonista l’inventore della Apple. A questo va anche aggiunto che per molti versi la storia di Jobs è da studiare anche per essere diventata il simbolo di come si possano raggiungere risultati straordinari anche passando con intelligenza attraverso degli insuccessi clamorosi; e di come insomma chiunque possa raggiungere i propri sogni anche ripartendo da zero, anche senza avere raccomandazioni, anche senza avere chissà quali spinte dall’alto. D’altra parte – continua Renzi – ciò che del metodo Apple ha avuto indiscutibilmente un effetto reale nel mondo della politica, e al quale è obiettivamente molto difficile non ispirarsi, è certamente l’attenzione maniacale per il dettaglio che ci ha insegnato l’inventore della Apple; la cura amorevole per la propria immagine; la grande connessione con la comunità che si sente di rappresentare; e la consapevolezza di come anche il design, anche l’estetica e anche la bellezza non siano più un semplice accessorio della comunicazione; ma più semplicemente siano una parte integrante del messaggio che vuoi dare. Ricordo – dice ancora il sindaco di Firenze – che a un certo punto del suo famoso discorso di Stanford Jobs disse che la vita di ognuno di noi si sarebbe dovuta ispirare a quella di un artista: ‘Osserva un artista, se è davvero in gamba, gli capita sempre prima o poi di arrivare al punto in cui potrebbe fare un’unica cosa per il resto della vita, e per tutto il mondo esterno continuerebbe ad avere successo ma non avrebbe successo per se stesso. Quello è il momento in cui si vede davvero chi è, se si mette in gioco rischiando il fallimento, è ancora un artista’”.
Secondo il sindaco di Firenze, “il primo politico a essere riuscito a parlare, con il linguaggio di Jobs, con il suo modo di fare e persino, scusate la parola, con i suoi valori, è stato naturalmente Obama, e nessuno oggi meglio del presidente americano può dire di essere un interprete sincero di quello spirito creativo, gioioso, artistico e rivoluzionario di cui si è fatto portavoce l’inventore della Mela. E’ evidente, poi, che se è vero che ispirarsi a Jobs dovrebbe essere quasi naturale per un politico di nuova generazione è anche vero che nel mondo della politica vi è sempre di più quella buffa tentazione di pigiare il bottone ‘Jobs’ per provare a creare un collegamento metaforico tra la propria immagine e quella dell’inventore della Apple, come se bastasse farsi fotografare in giro con un bell’iPad o con belle cuffiette bianche attaccate a un bell’iPhone per poter dire: ‘ehi, amici guardatemi bene, guardate come sono fico, come sono cool, come sono creativo, come sono rivoluzionario: guardate insomma come sono parte anche io di quel fantastico mondo degli spiriti liberi della Apple…”.
Quattro anni dopo il famoso intervento alla Stanford Cancer University, Steve Jobs – che durante le cure ormonali anti tumorali ha sviluppato il diabete di tipo 1 che lo ha costretto a iniziare la terapia insulinica per curare gli scompensi metabolici e che lo ha obbligato a seguire una particolare dieta bilanciata con apporti controllati di carboidrati, proteine e grassi per compensare la carenza di proteine e di zuccheri nel sangue – oggi vive con la moglie e i suoi tre figli a pochi passi dalla sede della Apple, nella contea di Palo Alto, in quella famosa casa realizzata vent’anni fa con degli speciali mattoni rossi costruita al centro di un grande campo di albicocche giusto nel cuore della California. Ed è stato proprio qui che, qualche tempo fa, Jobs ha ricevuto l’ultima raffica di telefonate di amici comprensibilmente preoccupati: era il 20 febbraio 2011, un paparazzo americano inquadrò fuori dal Centro Oncologico di Stanford un affaticato uomo dai tratti scheletrici molto simili a quelli di Steve Jobs, la celebre rivista di gossip americana National Enquirer pubblicò sulla rete gli scatti rubati e affiancò a quelle immagini lo spietato commento del famigerato dottor Samuel Jackson. Un commento secco che faceva più o meno così: “Quell’uomo, è evidente, non ha più di sei settimane di vita”. Punto.
Negli ultimi mesi, va detto, tra cene strafighe alla Casa Bianca e presentazioni di nuovi fantastici modelli di iPad, l’inventore della Apple ha dato più volte prova di essere ancora decisamente in forze; ma nonostante ciò, come dimostrano anche le dimissioni di due giorni fa da amministratore delegato dell’azienda, le notizie sulla salute di Jobs non hanno ancora smesso di far tremare i polsi degli amanti della Mela. E così, ogni volta che di questi tempi vi è stata la possibilità, anche solo per un attimo, di pensare a che cosa potrebbe davvero essere un mondo senza Steve i devoti si sono spesso ritrovati a compiere un gesto quasi meccanico: ad accendere il computer, a collegarsi con la rete, ad aprire la finestra del proprio motore di ricerca preferito e a scrivere una accanto all’altra le parole Steve+Jobs+discorso+stanford e a rileggersi poi con calma quelle parole con cui il capo della Apple, descrivendo il senso più profondo del suo think different, raccontò nei dettagli quattro anni fa che cos’è che gli era passato esattamente per la testa in quei mesi in cui il suo corpo si era ritrovato improvvisamente morsicchiato, proprio come se fosse una mela”.
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